Io sono nato a Tripoli, in Libia, nel 1962.
Mio padre, in Libia ci è arrivato nel 1939 con tutta la sua famiglia. Il fascismo dopo le efferatezze iniziò una campagna di popolamento con coloni italiani, che però, fortunatamente, fu fermata dalla guerra.

Mio padre era nato nel 1926 a Falconara Albanese, in Calabria, da una famiglia contadina poverissima. La promessa che faceva il regime fascista era di andare a trovare fortuna in Africa.
I suoi genitori – i miei nonni - spostarono così tutta la numerosa famiglia, mantenendo però uno stretto rapporto con Falconara. Mio padre conobbe mia madre a Falconara, e lei si trasferì a Tripoli quando si sposarono, poco tempo prima della mia nascita.
Quando mia madre comunica con i suoi parenti e amici di Falconara, parla una strana lingua, un albanese arcaico mescolato con parole calabresi e parole italiane. Io non lo capisco. Le mie origini sono albanesi, quando quasi cinquecento anni fa le comunità albanesi fuggirono dall’invasione ottomana in diverse zone del Sud d’Italia, stabilendosi in diversi luoghi fondando alcuni paesi come, appunto, Falconara Albanese.

La promessa di Tripoli era un pezzo di terra, una casa, delle attrezzature agricole e altri mezzi di sostentamento. Appena arrivati in Libia le famiglie venivano inserite in villaggi agricoli per coloni, il nostro era intitolato ad Arturo Breviglieri, un fascista di Ferrara.
Dopo la guerra alcuni parenti tornarono a Falconara altri, tra cui mio padre, rimasero in Libia spostandosi a Tripoli. Da Falconara in quegli anni c’erano molti lavoratori stagionali che arrivavano giù per lavorare pochi mesi e tornare a casa, uno scambio continuo di persone.
Mio padre arrivò ad aprire una delle più grandi cartolerie di Tripoli, mio zio aveva una tonnara ed entrambi lavoravano con i libici. Non volevano andarsene da quella vita, mio padre stava benissimo in Libia e loro – a differenza di me – avevano continui contatti con la popolazione locale.

Mi ha sempre stupito sentire i racconti della mia famiglia, nonostante tutti i crimini commessi dai fascisti, nella mia percezione la popolazione libica ha sempre avuto un rapporto cordiale con la comunità italiana.
Forse anche perché negli otto anni passati in Libia, io ho vissuto all’interno di un villaggio abitato prevalentemente da italiani. La scuola dove andavo era frequentata da bambini italiani nati in Libia, la prima lingua era l’italiano e la “seconda lingua” l’arabo. Studiavo l’arabo come qui si studiava l’inglese. Ricordo la mia infanzia in modo piacevole fino a quando c’è stato il colpo di stato di Gheddafi.
Anche dopo il colpo di stato, che fu sostanzialmente incruento, lui non perse la fiducia e voleva continuare a vivere lì la sua vita. Per mio padre il domani era lì.
Purtroppo però nel 1970, quando vennero promulgate le leggi per la cacciata degli italiani dalla Libia, perdemmo tutto. Le cose cambiarono e fummo costretti a partire, insieme a ventimila persone di origine italiana. Ci fu impedito di portare con noi i risparmi di una vita, i nostri oggetti, le cose più care.
Quando siamo partiti con la nave avevamo soltanto i nostri vestiti e un baule con il nome della nostra famiglia e di due città, quella di partenza e quella di arrivo: Tripoli e Napoli. Quel baule lo conservo ancora nel mio garage qui a Reggio.
Io avevo otto anni, la partenza fu un momento molto triste, sapevo che stavo abbandonando un posto per me bellissimo e sentivo che non lo avrei più rivisto.
Una volta sbarcati, fummo destinati in alcuni campi profughi. Noi ci trovammo a Capua, vicino Napoli. Del campo ricordo i capannoni dove le famiglie vivevano tutte insieme, poi la gavetta e la fila per prendere il cibo e il non avere nulla da fare per tutto il giorno.
Passammo qualche mese nel campo e poi raggiungemmo uno zio che viveva a Reggio Emilia che ci accolse a casa sua e da lì inizio un'altra vita. Mio padre ottenne un lavoro e da lì affittammo una casa. Anche una sorella di mio padre dopo qualche mese arrivò a Reggio. In seguito arrivarono a Reggio anche miei nonni.

Per mio padre Reggio Emilia fu, per certi versi, la sua “terza patria”. Dalla Calabria alla Libia e poi, a 44 anni, la sua vita si riazzera e riparte da Reggio in un contesto completamente nuovo.
A Reggio si è sempre trovato benissimo, non l'ho sentito mai lamentarsi, anche se quando è stato cacciato dalla Libia ha perso ogni cosa. Anche dopo il colpo di Stato c'è sempre stata una grande presenza italiana in Libia ma ai profughi era proibito per legge tornare nel paese da cui erano stati cacciati. Mio padre è morto a 93 anni ma non era uno che parlava molto e anche quando il regime di Gheddafi è stato rovesciato, non ha esultato. Negli ultimi anni, davanti alla televisione, i miei genitori videro Al-Sarraj e mi raccontarono che il padre del nuovo leader libico era un concorrente del mio: anche lui aveva una grande cartoleria a Tripoli e si conoscevano.

Io iniziai ad ambientarmi dopo un primo periodo un po’ difficile, all'epoca c'erano piccole forme di razzismo verso i profughi dalla Libia e anche verso i meridionali.
Oggi, dopo tanti anni, mi sembra strano rivedere come di fronte alle nuove migrazioni ci siano parallelismi con il mio passato. Anche se noi abbiamo fatto una traversata più agevole e anche l'accoglienza è stata diversa perchè eravamo italiani. All'epoca nel giro di un anno arrivammo in ventimila persone che tutto sommato sono state assorbite dal tessuto sociale italiano e mi sembra strano che oggi sia così difficile fare lo stesso.
Io non ho mai sentito di dovere avere un'identità, così come mi piaceva Tripoli e mi è dispiaciuto venir via, mi sono sentito sempre un po' calabrese e mi piace stare a Reggio. Il discorso dell'identità non mi apparteneva nemmeno da piccolo. Non ho mai sentito di appartenere ad un luogo.