Mariam Ouhiya - 1985 Marocco

(giuramento 7 settembre 2018)

Sono Mariam, residente a Reggio da 14 anni.
Sono arrivata a Misilmeri, un paesino in provincia di Palermo a 4 anni con un ricongiungimento familiare, e lì ho fatto la scuola d'infanzia. Dopo un anno ci siamo trasferiti a Palermo dove ho fatto le elementari fino alla quarta. Eravamo 4 fratelli poi ne sono nati altri tre, in totale siamo 7, due maschi e 5 femmine.
Mio padre ha deciso di aprire una nuova attività a Reggio Emilia e quando ha capito che andava bene ci ha chiamati tutti qui dove ho fatto la quinta elementare.

Essendo arrivata da piccolina, ho aperto gli occhi in questo paese. L'italiano è stata la prima lingua che abbiamo imparato noi fratelli grandi e che abbiamo parlato anche tra noi. La televisione è stata sempre quella italiana, quindi per noi non c'è stato un cambiamento perchè abbiamo cominciato a vivere realmente qui in Italia.

La persona che invece ha sofferto il trasferimento, è stata mia madre e dopo un anno ha detto: " Basta, voglio ritornare nel mio Paese". L'ha detto una prima e unica volta ed è stato così.  Ci hanno presi tutti e sette e siamo tornati in Marocco.
Il fatto di essere ritornati in un Paese di cui non conoscevamo né la lingua né la cultura è stato, per me in particolare, un impatto durissimo e ho fatto tantissima fatica ad ambientarmi. Nostro padre ha capito che cambiarci anche scuola e ricominciare con una nuova lingua, sarebbe stato devastante per i nostri studi, quindi ha avuto l' illuminazione di iscriverci a una scuola italiana di Casablanca. E' stata la nostra salvezza ritornare nell'ambiente che abbiamo sempre conosciuto, con insegnanti e compagni che parlavano italiano, ma appena uscivamo da scuola io mi sentivo molto spaesata.
C'ho messo veramente tantissimi anni prima di abituarmi. Nella scuola italiana ho fatto le medie e il liceo scientifico. Ottenuta la maturità, nostro padre ci ha lasciate libere di decidere. Ha detto: "Decidete voi se volete ritornare in Italia o andare in un'altro Paese. E' la vostra vita".
Avendoci dato questa responsabilità, sono tornata in Italia. Per fortuna che mia sorella mi precedeva sempre nelle decisioni ed era già qui. Ora come ora mi son detta che siamo state coraggiose a prendere in mano la nostra vita e ad affrontarla. Questo è stato il mio viaggio verso un "nuovo" paese: l'Italia. Quella è stata la mia migrazione perché la scelta l'ho fatta io. Quando mi dicono "tu sei praticamente nata qui", dico si, però ho deciso io di ritornare dopo 8 anni e di affrontare la mia vita.

Ho cominciato ad andare all'università e a riambientarmi a tutto quello che era la vita qui. Ho conosciuto persone dei servizi del Comune e ho cominciato ad avvicinarmi al volontariato. Attraverso questo, sono nate delle amicizie che continuano fino adesso con volontarie ed educatrici che, conoscendomi e avendomi vista propositiva, mi hanno avviata ad alcuni laboratori. Ho iniziato così a sentirmi vicina all'aspetto sociale e ho deciso di cambiare università. Ho fatto lingue mentre prima facevo ingegneria.
Mio padre all'inizio l'ha presa male ma poi ha detto: "è la tua vita, sei tu che devi scegliere e che devi proseguire nel lavoro. Nella vita uno può decidere di aprirsi altre porte". Così ho conosciuto un progetto a me molto caro che si chiama "Mamme a scuola" dove ho incontrato la mia mentore, Gina, che è stata ed è tutt'ora, un grandissimo punto di riferimento. E' forse grazie a lei che oggi sono quella che sono.
Tramite questo progetto mi sono avvicinata a quello che si affronta quando si migra realmente, perchè io non sono partita da zero, arrivavo in Italia, a 18 anni, con una base linguistica, culturale e un'idea di quello che avrei trovato. Con "Mamme a scuola", le donne di origine straniera possono partecipare a degli incontri di lingua in cui si trovano diverse realtà e provenienze. Si dice che le donne straniere non vogliono fare niente e sono chiuse a casa, invece no. Ogni giorno vedo la loro voglia di imparare e partecipare. Quando si dà loro l'opportunità e soprattutto si sentono accolte, sono le prime che si fanno avanti. Questo mi dà la spinta a fare sempre qualcosa in più.

Capisci che il mondo non è quello che ci vogliono far credere. Chi non è vicino a questo mondo fa fatica a capire. Cerco di spiegare ma mi accorgo che non si può a parole, devi vederlo. Si instaurano amicizie incredibili tra donne italiane e donne di origine straniera. Tutto questo fa sì che la cittadinanza che abbiamo ottenuto oggi io e mia sorella Asma, ci dia forza per fare ancora di più.
In realtà io dentro mi sono sempre sentita cittadina italiana da quando a 4 anni ho messo piede nella scuola d'infanzia. Anzi, mi sono sentita distaccata da quello che era la mia cultura e la mia cittadinanza, quando sono dovuta ritornare in Marocco.
L' incontro di oggi quindi è stato come una proclamazione finale di quello che fa parte di me, di quello che sono. Entrare come protagonista nella sala Tricolore mi ha fatto sentire ancora più legata a questo che io ritengo il mio Paese. Quando mi chiedono -qual è la tua lingua madre- per me è l'italiano. Non ho capacità linguistiche nè in arabo, nè in francese come in italiano, quindi realmente è la lingua che sento mia.

Io e mia sorella, che adesso vive a Padova, una volta all'anno, per solo un mese, ritorniamo in Marocco dai nostri genitori. Non li abbiamo vicini qui ma ci siamo create la nostra "famiglia" con le persone che il destino ci ha messo davanti e si è instaurato un gruppo familiare grandissimo che non mi ha mai fatto sentire diversa. Ho cominciato a far parte di un' associazione di volontariato e il gruppo di lavoro è quello che veramente considero la nostra famiglia. Una grandissima fortuna è che sono sempre stata accolta a braccia aperte da tutti.
La prima frase che Gina mi ha detto è stata: "Quello che hai è una ricchezza che devi tramandare agli altri, perché se tu ti senti da meno, loro lo sentono, ma se sei la prima a credere in quello che sei, anche gli altri lo credono". Da lì, anch'io do sempre questo messaggio ai ragazzi che sono nati e vivono qui, perchè non devono sentirsi per primi diversi dai loro compagni. Siamo noi a mandare il messaggio di quello che vogliamo che la gente veda.